Tartare di lepre, royale di germano, fondente di patate con anatroccolo, ravioli con finanziera di selvaggina burro e salvia, pernice rossa alla marchigiana. Siamo certi che molti di quelli che stanno leggendo ora hanno avuto un aumento di salivazione e in alcuni casi hanno già l’acquolina in bocca. Sono alcuni dei piatti che lo chef Uliassi propone nel suo ristorante all’interno del menù caccia. Non vuole essere una poco velata pubblicità al noto cuoco, ma solo un esempio di quanto è presa in seria considerazione ad alti livelli la selvaggina nella ristorazione, sebbene ci sia ancora molto “lavoro” da fare per promuoverne le qualità organolettiche ed etiche.

Con selvaggina intendiamo ovviamente ungulati di vario genere, come cinghiali, cervi e capriolo, lepri e i numerosissimi pennuti presenti nel nostro territorio (quelli cacciabili si intende), animali che sono parte integrante della tradizione culinaria italiana fin dai tempi più remoti. Animali che rappresentano un’alternativa migliore rispetto all’offerta di carne da allevamento (pollo, maiale, manzo, ecc) in quanto generalmente più sana e molto nutriente:

  • Non è infatti soggetta a cure ormonali e ad allevamento intensivo.
  • Risulta essere più magra in quanto libera di muoversi in natura.
  • Le carni sono complessivamente più ricche di sostanze organolettiche e nutrienti dei corrispettivi in allevati.

Generalmente si tende a suddividere la carne degli animali selvaggi in pelo (cervi, lepri, ecc) o penna, in alternativa si può distinguere tra piccola e grossa selvaggina selvaggina: la prima raggruppa gli ungulati, la seconda pennuti e lagomorfi. Può essere elaborata per ottenere salumi e le ricette a riguardo sono davvero molteplici. L’unica criticità riguarda lo status di eccezionalità: nonostante i suoi elevati valori nutrizionali e la sua maggiore “eticità” dipende in maniera eccessiva dalle stagioni di caccia e da una normativa nazionale purtroppo lacunosa e limitante. Ragion per cui non è ancora un ospite fisso di ristoranti e osterie, come invece meriterebbe di essere.

Selvatici e buoni: come valorizzare la selvaggina del territorio

Le tipologie di selvaggina e il valore aggiunto della libertà in natura

Quando si parla di valore etico della selvaggina nella ristorazione si intende evidenziare il fatto che questi animali, di cui possiamo cibarci in determinati contesti e requisiti sanitari, nascono e vivono in libertà, meno soggetti a stress emotivo, senza essere costretti ad alimentarsi forzatamente e senza subire trattamenti farmacologici od ormonali, atti unicamente ad aumentare i profitti di chi gestisce gli allevamenti.

Un dato di fatto incontrovertibile che rende le loro carni più sane e magre in quanto il maggior movimento nel territorio che li contraddistingue rispetto a chi vive entro una recinzione gli permette di ossigenare meglio il sangue, oltre alla già citata assenza di farmaci e ormoni e alla loro nutrizione avulsa da mangimi artificiali. A questo generale stato di salute maggiore fa da contraltare il rischio, da non sottovalutare, relativo alla malattie pericolose di cui gli animali selvaggi possono essere portatori, tali da rendere necessari degli stretti controlli igienico-sanitari al momento dell’abbattimento e successivamente al loro trasporto presso una struttura adibita.

La condizione di libertà in natura permette a questi animali di non sottostare dunque a tutte le pratiche industriali purtroppo comuni presso molti allevatori, guidati più dal profitto che dalla ricerca di un prodotto sano e di qualità, e permette loro di distanziarsi quanto più possibile dai fattori inquinanti che caratterizzano le attività umane. Un ultimo vantaggio etico viene da un’ulteriore criticità che l’allevamento intensivo comporta: il consumo eccessivo di risorse, acqua e terreni.

Le proprietà organolettiche e nutrizionali della selvaggina: quando la natura offre il meglio

È abbastanza comune parlare delle carni da selvaggina come di una specialità notevolmente più nutriente di quelle da allevamento. La verità è che questa differenza risulta essere meno marcata di quanto si pensa, anche se non mancano gli elementi a riguardo:

  • Il colore maggiormente brunito della selvaggina deriva da un quantitativo importante di ferro
  • I grassi degli animali selvatici, come specificato previamente, hanno percentuali decisamente inferiori (sotto il 10%) dovute alla loro maggiore “attività fisica” .
  • Il contenuto proteico è pressochè identico fra queste macro-categorie di animali, a eccezione di specie come l’anatra, dall’alto contenuto lipidico
  • L’apporto calorico è davvero minimale, più simile al pesce che agli animali da allevamento
  • I carboidrati sono assenti
  • Abbondano peptidi (e quindi gli aminoacidi essenziali a essi legati), acidi come creatinina, carnosina, ecc, vitamine del gruppo B (per i gruppi A e D solo se si ci si nutre delle frattaglie), minerali come magnesio e potassio (ma non solo)

A fronte di questa panoramica generale sui valori nutrizionali della selvaggina nella ristorazione va precisata una cosa: le specie selvagge sono numerose e i valori si differenziano anche in maniera marcata fra l’una e l’altra, quindi alcune peculiarità potrebbero non essere completamente valide per determinati animali.

Aspetti normativi riguardanti il procacciamento e il consumo di selvaggina

La selvaggina consumata sul nostro territorio rifletti norme, processi e requisiti igienico-sanitari che coinvolgono il controllo delle ASL e l’impegno dei Centri di Lavorazione della Selvaggina (CLS), nate di recente per incentivare la filiera della fauna selvatica. La base legislativa si rifà al regolamento CE 852-853/2004, recepito a livello nazionale e regionale, in cui sono stabiliti i criteri e le modalità per la consumazione e commercializzazione della carne, con l’obiettivo di garantire la qualità e la sicurezza alimentare.

Purtroppo il recepimento restrittivo di tale norma e i vincoli sulla caccia (in certi casi troppo approssimativi) non aiutano a valorizzare la selvaggina in qualità di risorsa economica per il paese, capace quindi di generare un valore che va oltre la semplice consumazione del “prodotto”.

Per tale ragione avviene purtroppo che maggior parte della selvaggina nella ristorazione nostrana arrivi da allevamenti o attività venatorie in paesi esteri, principalmente Nuova Zelanda e Austria. Proprio gli allevamenti di selvaggina rappresentano una grave mancanza del territorio italiano e i pochi presenti ospitano solitamente una singola specie (soprattutto daino e cinghiale).

Selvatici e buoni: come valorizzare la selvaggina del territorio

La selvaggina nella ristorazione italiana: un prodotto ancora troppo di nicchia

La carne proveniente da fauna selvatica vanta una storia e una tradizione davvero antichissime: era il cibo per i nobili e i signori, ovvero per quei pochi che potevano permetterselo. Ritornare al consumo della stessa potrebbe sembrare solo un viaggio nel passato quasi anacronistico, ma le ragioni etiche e di sostenibilità ambientale (cui si legano le vicende legate ai pericoli della biodiversità in determinati territori e ai danni causati dalla fauna agli agricoltori), unitamente al loro alto grado di nutrienti, dovrebbero servire come base fondamentale per il suo rilancio. Certamente servirebbe un impegno istituzionale maggiore a livello normativo, soprattutto per quanto riguarda l’implementazione qualitativa dei controlli e dei processi preparatori come la frollatura: una pratica fondamentale perché non solo intenerisce la carne, rendendola edibile. 

Al momento attuale la selvaggina è poco presente nei menù dei ristoranti italiani, in parte per il suo costo da importazione, in parte per la difficoltà a reperirla dal territorio in modo continuativo (cacciato o allevata che sia). Fa eccezione la ristorazione di alto livello, quella stellata per intenderci: come il già citato Uliassi con il suo menù, sono diversi gli chef di fama che promuovono e inseriscono la carne selvatica nelle proprie attività. Bruno Barbieri è un altro celebre esempio in merito.

Dare più risalto alla selvaggina significherebbe valorizzare il territorio, innovando la cucina e rimanendo al contempo fortemente ancorati alla tradizione: non solo preparare brasati e stufati, ma anche carpacci e tartare per poter assaporare il gusto “selvatico” nella sua pienezza. Una sfida di eccellenza che fa della qualità e delle sostenibilità i suoi punti di forza e che proprio per tali ragioni dovrebbe essere meno trascurata e più promossa sulle nostre tavole. Una risorsa alimentare ed economica che porterebbe vantaggi a più settori.

“Selvatici e buoni: una filiera alimentare da valorizzare”

Proprio per valorizzare la selvaggina nella ristorazione e nel territorio la nostra Fondazione Una sostiene un progetto scientifico avviato a settembre 2017: “Selvatici e buoni: una filiera alimentare da valorizzare”. Ideato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo con la collaborazione del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano, della Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva e dello Studio AlpVet.

L’obiettivo del progetto punta a implementare lo sviluppo dei processi di gestioni igienico-sanitaria che avvengono alla carne della fauna selvatica, in modo da garantire maggior sicurezza nel trattamento della stessa, e a promuoverne le caratteristiche nutrizionali. Un’iniziativa che permetterebbe in tal caso di aiutare a livello socio-economico numerose aree montane e rurali, trasformando il problema della forte crescita demografica degli ungulati, così critica in alcune zone della nostra penisola, in una risorsa per il territorio.

“Con Selvatici e Buoni si attribuisce finalmente valore ad una carne tanto pregiata quanto sottovalutata come quella di selvaggina, nella cui filiera saranno introdotti criteri di tracciabilità, sicurezza alimentare, trasparenza e legalità”.

Maurizio Zipponi, presidente del Comitato Scientifico di Fondazione UNA Onlus

 

Selvatici e buoni: come valorizzare la selvaggina del territorio

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