Un libro progetto firmato da Igles Corelli e Michele Milani, con la partecipazione di 25 grandi chef, accende nuova luce sulla cucina della selvaggina

(La Repubblica) 06-01-17

“Il senso e il significato della caccia li capiamo solamente se comprendiamo la natura dell’animale e quella dell’uomo. Capire il senso della caccia presuppone che si capisca l’essere umano”.
Ci hanno provato e ci provano in tanti a spiegare il senso di ricerca di sé del cacciatore, ma pochi come il filosofo Josè Ortega y Gasset in queste righe ci riescono. Perché “il cacciatore vero – scrive nel Discorso sulla caccia – è colui che abbatte perché è andato a caccia e non già l’uomo che va a caccia per abbattere”.

Sembrerà paradossale, ma il cacciatore “vero” – non il bracconiere, non il cacciatore di frodo, non l’insensibile verso la sofferenza animale e la tutela dell’ambiente – è colui che pone il suo animo in sintonia con la natura, la rispetta in modo quasi religioso, se ne prende cura.
Si trova tutto questo, oltre che decine di ricette di grandi chef dedicate alla cacciagione, nel libro La “Caccia” di Igles e dei suoi amici – un giro tra le eccellenze della cucina italiana con chi ha saputo valorizzare le carni di selvaggina, scritto dallo chef Igles Corelli, del ristorante Atman di Lamporecchio (Pistoia), grande firma dell’alta cucina da oltre trent’anni in uno stile che fonde ricordi e ricerca, tradizioni e visioni, capace di anticipare molte tendenze fin dagli anni del mitico Trigabolo di Argenta.

A fianco a lui nel libro, il cacciatore-editore Michele Milani per realizzare, come fossero i concerti di “Pavarotti&friends”, un’esibizione corale in versione  gastronomica con 25 colleghi chef che hanno dato il loro contributo a quello che più che un volume di ricette è un progetto.
Sì, un progetto che vuol ribadire il valore – organolettico e salutistico – di carni di animali diversissimi da quelli allevati, perché hanno vissuto liberi in habitat incontaminati.
Cervi, daini, lepri, caprioli, cinghiali, ecc. hanno carni magre, ricchissime di ferro, naturalmente prive di residui farmacologici. Nelle regioni che hanno recepito la normativa comunitaria in materia (in primis l’Emilia Romagna) è possibile commercializzare le carni prelevate con la caccia e ciò assicura anche quei controlli da parte di veterinari Ausl che le rendono ineccepibili dal punto di vista igienico-sanitario. Tutti quanti contestano la caccia forse non sanno che le Regioni individuano ogni anno un numero di capi da far abbattere, a causa di una proliferazione eccessiva che mette a rischio l’ecosistema, oltre a volte a minacciare anche le colture.
La commercializzazione di questi capi è dunque un modo per non buttare, letteralmente, al macero animali comunque destinati a morire.  In più i cacciatori vengono censiti e formati in modo da cacciare solo quel dato tipo e numero di animali che è stato stabilito.

Quindi il libro-progetto vuole riaffermare la dignità di un’attività dell’uomo che lo riporta a comportamenti e riti ancestrali, e che oggi ha una sua funzione ecologica.
Selvaggina risorsa, insomma, selvaggina ritorno a tradizioni antiche ma anche riserva di gusto. Per riscoprire, come dice Micheli, “il sapore inimitabile di animali  che hanno vissuto liberi in un ambiente incontaminato”.
Così, gli autori ci portano in viaggio attraverso la Penisola per creare un nuovo modo di intendere la “cucina di caccia”, perché le 35 ricette si ispirano alle preparazioni del passato, ma allo stesso tempo offrono spunti innovativi per rivalutare un prodotto selvatico proprio del nostro paese.
Posto che “la caccia è un rito spietato” (Corelli dixit) è dovere del cuoco “rendere dignità alla parte offesa creando un grande piatto” sostiene Paolo Masieri del ristorante Paolo&Barbara di Sanremo.

I piatti di Igles Corelli, alcuni dei quali ho avuto modo di assaggiare, sono un inno gioioso alla carne selvaggia e insieme una lezione di gastronomia: chi l’ha detto che la selvaggina più la cuoci e più è buona? Maestria di frollatura (ma “meno è meglio” ha detto Corelli, in occasione della presentazione del libro) e conoscenza creano piccoli capolavori come “Il daino si fa tonno”, “La caccia si tuffa in un risotto” e “Il volo della quaglia”, per la quale ha scritto anche una poesia.

Ecco poi le ricette (con foto di Davide Dutto) e i pensieri sulla selvaggina di molti grandi nomi della cucina d’autore italiana. C’è Roberto Petza del S’Apposentu di Siddi, in Sardegna, col suo “Tortora, pere e cipolle” che rispetta il cacciatore vero perché lontano dal bracconaggio ma anche dagli allevamenti intensivi che negano qualsiasi forma di dignità agli animali.
E poi Davide Scabin del Combal.Zero di Rivoli (Torino) col suo Piccione tra mare e terra e il suo amore per le ricette di selvaggina che lo portano in “un ritorno atavico all’essenza”.
C’è Philippe Leveillè del Miramonti l’Altro a Moncesio con la ricetta del Royale di Cervo che sottolinea che la selvaggina è spesso dimenticata nell’alta cucina forse perché è “troppo intensa e troppo profumata per la nostra epoca”.

All’appello hanno risposto anche Giancarlo Perbellini col Tiepido di cinghiale in foglie di cappero”, Salvatore Tassa con l’Humus di Cervo, Massimo Bottura con “a volte pernice a volte germano”, Stefano Baiocco, fan del civet, Moreno Cedroni, Mauro Uliassi, Heinz Beck e via tra superstar della cucina contemporanea.
Ma, sembrerà strano, le ricette e i pensieri che più colpiscono sono quelli delle donne-chef del libro: Isa Mazzocchi, Fabrizia Meroi, Maria Grazia Soncini. La prima, chef de La Palta a Borgonovo Val Tidone, racconta che, cresciuta tra cacciatori in un paesino di cento abitanti, quando cucina la cacciagione ancora si immedesima nelle donne del passato che con cura e amore cucinavano le prede portate dai mariti (anche se le sue tecniche sono quelle sopraffine del maestro Georges Cogny!). La seconda, del Laite a Sappada, sottolinea con forza che la cucina di caccia è patrimonio culturale di un territorio che unisce passato e futuro all’insegna del rispetto della natura.
E infine Maria Grazia Soncini della Capanna di Eraclio a Codigoro in provincia di Ferrara, che ricorda di quando andava incontro al papà cacciatore di ritorno dalla battuta. Aveva solo 5 anni e già aiutava mamma nella preparazione: “La pulizia immediata della lepre appesa a testa in giù e orecchie a ciondoloni. Il rituale pulizia… quei ciuffi di pelo chiaro che svolazzavano, il sangue, il rumore delle interiora che cadevano giù e l’afrore amaro dell’intestino. Era tutto nell’ordine naturale delle cose, imprinting che non ti lascerà più”.

Forse aveva ragione Giacomo Leopardi nel dire che la caccia “occupazione naturalissima e primitiva, degna veramente dell’uomo, e conducente alla felicità naturale”.

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